GIUSTIZIA CONTABILE: Giurisdizione della Corte dei conti – Percepimento del reddito di cittadinanza – Sussiste – Finalità del reddito di cittadinanza – Efficacia delle politiche attive del lavoro – Strumento per il contrasto alla povertà alla disuguaglianza e all’esclusione sociale – Inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione – Percettore del reddito di cittadinanza che utilizza il medesimo reddito indebitamente – Pregiudizio erariale – Sussiste – Azione di responsabilità amministrativa innanzi al giudice contabile – Consentita – Recupero dell’indebito da parte della p.a. innanzi al giudice ordinario – Consentita – Azioni indipendenti fino all’integrale ristoro del pregiudizio.- Corte dei Conti, Sez. II centr. giurisd. d’appello, 28 ottobre 2022, n. 468

“[...] Il reddito di cittadinanza costituisce un particolare beneficio economico, introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. n. 4 del 2019, al dichiarato fine di operare una generale razionalizzazione dei servizi per l’impiego, con l’obiettivo di una più efficace gestione delle politiche attive per il lavoro [...]”.

2. “[...] L’art. 1, comma 1, pertanto, definisce il reddito di cittadinanza quale “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro”, oltre che di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura, prevedendo a tal fine politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro [...]”.

3. “[...] la giurisdizione contabile si radica quando il destinatario del denaro pubblico (che non può, si ripete, essere considerato “mero destinatario del beneficio economico” come ritenuto dai primi giudici) utilizza la risorsa in modo diverso da quello preventivato o ponendo in essere i presupposti per la sua illegittima percezione, o anche semplicemente sottraendo, con la propria condotta, ad altri possibili beneficiari il contributo che avrebbe potuto portare alla realizzazione della finalità prefigurata dal legislatore [...]”.

4. “[...] contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, che si sia in presenza non dell’esercizio di una azione di restituzione di indebito, di competenza del G.O., ma di una azione di responsabilità per danno erariale insito nella mancata realizzazione di un fine pubblico perseguito con la contribuzione, mediante il godimento del beneficio di legge ottenuto o mantenuto grazie a dichiarazioni mendaci o con omissione di obblighi di comunicazione (Cass. S.U. n. 24899/2020). Va da sé che l’azione di responsabilità per danno erariale e la facoltà, spettante all’amministrazione danneggiata, di promuovere le ordinarie azioni civilistiche davanti al giudice ordinario per il recupero totale del contributo restano reciprocamente indipendenti, anche quando 1 investano i medesimi fatti materiali, quanto meno fino alla concorrenza dell’integrale ristoro del pregiudizio subito (Cass. S.U. 13245/2019). Per le su esposte ragioni l’appello del Procuratore regionale va accolto, dichiarando la giurisdizione della Corte dei conti a conoscere della questione [...]”.

SENTENZA nel giudizio di appello n. 58732 del registro segreteria, proposto da: PROCURATORE REGIONALE presso la Sezione giurisdizionale per la regione Campania, in persona del Procuratore regionale p.t. nei confronti di XXXX avverso la sentenza n. 439/2020 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Campania, depositata il 2 ottobre 2020;

Visto l’atto di appello;

Visti i documenti tutti di causa;

Nella pubblica udienza del 9 giugno 2022, con l’assistenza del segretario, dott.ssa Alessandra Carcani, uditi: il relatore, Pres. Rita Loreto e il Pubblico Ministero, nella persona del Vice Procuratore generale Luigi D’Angelo, non costituita l’appellata.

FATTO 1. La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Campania con l’impugnata sentenza ha dichiarato il difetto di giurisdizione in ordine alla domanda proposta dal Procuratore regionale nei confronti della signora xxxxx, per sentirla condannare al pagamento della somma di euro 2.135,42, oltre rivalutazione monetaria, interessi e spese di giustizia, per il danno erariale cagionato all’INPS e al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a seguito di percezione del reddito di cittadinanza in violazione delle prescrizioni di cui al D.L. n. 4 del 2019, convertito nella L. n. 26 del 2019. Dagli atti di causa emerge che la signora xxxxx aveva presentato istanza in data 6 marzo 2019 ed aveva ottenuto la concessione del beneficio dall’aprile 2019. Senonché, da successivi accertamenti della Guardia di Finanza era emerso che la sorella dell’istante, la quale era stata indicata nella domanda per la concessione del reddito di cittadinanza come disoccupata facente parte del nucleo familiare, in realtà era dedita alla attività di venditore al dettaglio di tabacchi esteri di contrabbando già in epoca coeva al rilascio del beneficio. 2 Rappresentava il Procuratore regionale che la soglia di ammissibilità del requisito economico indispensabile quale presupposto per la concessione del beneficio (di cui all’art. 2, comma 1, lett. b) viene dalla norma regolatrice sopra citata rapportata alla consistenza dell’intero nucleo familiare e che, ai sensi dell’art. 3, comma 9 del già citato D.L., in caso di avvio di attività di impresa o di lavoro autonomo, svolta sia in forma individuale che di partecipazione, da parte di uno o più componenti il nucleo familiare nel corso dell’erogazione del Rdc, la variazione dell’attività è comunicata all’INPS entro trenta giorni dall’inizio della stessa a pena di decadenza dal beneficio. La disciplina sanzionatoria prevista dal successivo art. 7, comma 4, dispone, altresì, che “l’omessa successiva comunicazione di qualsiasi intervenuta variazione del reddito, del patrimonio e della composizione del nucleo familiare dell’istante” determina “l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva”, anche in caso di variazioni “provenienti da attività irregolari”.

Su tali basi normative la Procura illustrava in primo luogo la natura del c.d. reddito di cittadinanza, quale erogazione temporanea di risorse pubbliche ai nuclei familiari (art. 2, comma 1) che versano in determinate condizioni di disagio economico e che presentano specifici requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno, al fine di realizzare la finalità, di pubblico interesse, dell’utile e progressivo inserimento dei soggetti non occupati nel mondo del lavoro, tutelato al primo comma dell’art. 4 della Costituzione, obiettivo alla cui realizzazione è funzionale anche assicurare una dignità di vita idonea alla ricerca dell’occupazione. Il rilascio di tale contributo è poi condizionato da determinati vincoli ed obbligazioni estesi a tutti i soggetti componenti del nucleo familiare beneficiario, in un rapporto sinallagmatico del soggetto privato istante con la pubblica amministrazione, reso evidente da un articolato sistema di condizioni, obblighi e sanzioni e dalla sottoscrizione del c.d. “patto per il lavoro”. Per tali ragioni il requirente evidenziava che la puntuale e dettagliata disciplina appena esposta rende palese come non si tratti di una forma di intervento puramente assistenziale, sorretto da mere finalità di solidarietà sociale, bensì di un contributo pubblico la cui fruizione è normativamente regolamentata nel perimetro di un vero e proprio “patto” tra l’Amministrazione concedente ed i soggetti percipienti, al pari, ad esempio, delle ipotesi di concessione a privati di contributi comunitari intesi a realizzare le medesime finalità di sviluppo occupazionale. Per tali ragioni, in analogia alla indebita percezione di contributi comunitari, sarebbe possibile individuare ipotesi di danno erariale collegate alla violazione, da parte del percettore, delle obbligazioni assunte con l’Amministrazione, sanzionate dalla norma con la revoca del contributo medesimo in considerazione del mancato perseguimento delle finalità di pubblico interesse cui il contributo risulta destinato dal Legislatore. 3 Ravvisava, pertanto, nella fattispecie in esame, la sussistenza della giurisdizione contabile a conoscere del danno erariale consistente nella percezione indebita, a seguito di constatazione della perdita dei requisiti, di quote di reddito di cittadinanza da parte della convenuta xxxxx per avere scientemente omesso di comunicare le variazioni di reddito del nucleo familiare, che aveva comportato la decadenza con efficacia retroattiva dal contributo percepito da aprile 2019 ad ottobre 2019, per complessivi euro 2.135,42. 2. Con la sentenza n. 439/2020, depositata il 2 ottobre 2020, la Sezione giurisdizionale per la Campania dichiarava la sussistenza della giurisdizione della A.G.O. sull’azione proposta dalla Procura.

Il Collegio di primo grado ha, in primo luogo, richiamato la consolidata giurisprudenza sul requisito del rapporto di servizio, ravvisabile sia nelle ipotesi in cui un soggetto pubblico o privato sia vincolato alla gestione di pubblico denaro secondo un programma imposto dalla pubblica amministrazione, sia quando sussista una relazione con la pubblica amministrazione, caratterizzata per il tratto di investire un soggetto, altrimenti estraneo alla P.A., del compito di porre in essere in sua vece una attività. Ciò premesso, la Sezione territoriale ha, poi, affermato che, esaminando la normativa di cui al D.L. n. 4/2019, “va negato che la percezione del reddito di cittadinanza integri la gestione di risorse pubbliche, ovvero l’assunzione del compito di realizzare un’attività in vece della pubblica amministrazione”. Ciò in quanto la detta disciplina, pur imponendo ai nuclei familiari il possesso di determinati requisiti e l’assunzione di puntuali obblighi finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale, invero “non conferisce al privato beneficiario la gestione di risorse pubbliche secondo finalità pubbliche, essendo costui un semplice destinatario di risorse di mera provenienza pubblica, prive di vincolo di destinazione”. Il Collegio di prime cure ha comunque riconosciuto che l’art. 1 del D.L. già richiamato fornisce una definizione molto ampia del reddito di cittadinanza, che include finalità non solo assistenziali ma anche di politica attiva del lavoro; quest’ultima emerge dalle specifiche disposizioni dettate dall’articolo 2, comma 3 (che preclude l’accesso al beneficio ai soggetti disoccupati per dimissioni volontarie non per giusta causa) e dall’articolo 4 (che prevede i c.d. patti per il lavoro o per l’inclusione sociale). Pur tuttavia, ad avviso del Collegio di primo grado “Questa finalità si colloca nell’ambito della più generale ratio legislativa di contrasto alla povertà, sostegno economico e inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro, ratio che viene garantita attraverso la previsione normativa di specifici obblighi, funzionali anche all’inserimento lavorativo, nell’ottica di rendere effettivo il diritto al lavoro”. Ciò nonostante, rileva 4 il primo giudice, in primo luogo il carattere provvisorio dell’erogazione contrasterebbe con il rinvenimento di un rapporto strumentale tra l’Amministrazione ed il privato; in secondo luogo, non ne risulterebbe mutato lo scopo assistenziale direttamente perseguito dal legislatore, poiché le risorse fruite dal nucleo beneficiario non sono, per loro natura, destinate alla realizzazione di opere o alla soddisfazione di interessi o bisogni collettivi o, comunque, ad attività che abbiano di per sé immediata rilevanza pubblica, in carenza di vincoli di destinazione e di rendicontazione degli importi corrisposti, configurati quali aiuti o sostegni di carattere provvisorio, in attesa dell’inserimento nel mondo del lavoro da parte dei soggetti che ne beneficiano. Sempre ad avviso dei giudici di prime cure, la fattispecie all’esame sarebbe da accomunare a quanto già deciso dalla Suprema Corte, con riferimento all’assenza di collegamento funzionale e conseguente insussistenza della giurisdizione contabile, in ordine all’erogazione di contributi pubblici in favore dei soggetti privati danneggiati da eventi calamitosi (Cass. S.U., n. 9846/2011). In definitiva, ad avviso della Sezione territoriale “Nel caso di specie non sussiste alcun vincolo di finalizzazione con riguardo all’impiego del reddito di cittadinanza: il privato beneficiario non è chiamato a partecipare a un programma pubblicistico, non essendo investito del compito di porre in essere un’attività in vece della pubblica amministrazione”. Di conseguenza, nel caso di specie non può determinarsi alcuno sviamento da finalità pubblicistiche proprio in quanto la normativa di riferimento non prevede specifiche modalità di impiego del beneficio fruito, alle quali possa ritenersi tenuto il soggetto beneficiario, come per contro avviene nel caso di contributi comunitari intesi a realizzare finalità di sviluppo occupazionale. Secondo il Collegio di primo grado, se pure alla base dell’intervento legislativo sussista un generale interesse pubblico all’inserimento nel mondo del lavoro, “quest’ultimo si manifesta in termini strumentali alla realizzazione della primaria finalità assistenziale di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Tale interesse, insomma, non si traduce giuridicamente (ex post) in un vincolo funzionale e di destinazione, nell’ambito di un programma pubblicistico; ma rappresenta la mera finalità politica che sta alla base dell’intervento pubblico, concretizzandosi nella previsione (ex ante) della necessaria sussistenza di determinati requisiti e condizioni ai quali è subordinata l’erogazione del beneficio”. Le conclusioni a cui perviene il Collegio di prime cure sarebbero suffragate dalla previsione, nella normativa all’esame, dell’ulteriore strumento, di chiara valenza assistenziale, costituito dalla c.d. pensione di cittadinanza, prevista per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore ai 67 anni. Entrambi i benefici, dunque, sarebbero sorretti dalla finalità pubblica di contrasto alla povertà, “che rappresenta l’interesse pubblico primario perseguito 5 in via diretta dalla normativa. Detto interesse, in taluni casi, si intreccia con ulteriori finalità pubblicistiche che trovano compiuta considerazione nella regolamentazione dell’erogazione stessa, senza tuttavia incidere sull’interesse pubblico primario perseguito e sulla natura del contributo, che resta di carattere prettamente assistenziale”. Conclusivamente, la Sezione campana ha ravvisato, alla base della controversia proposta, non la corretta gestione delle risorse pubbliche bensì l’accertamento della sussistenza o meno, in capo alla convenuta, del diritto di beneficiare del contributo e pertanto, “trattandosi di azione restitutoria fondata su un indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. dipendente dalla indebita percezione di un’indennità istituita per ragioni di solidarietà sociale”, e stante la prevalenza della finalità assistenziale e solidaristica, ha denegato la giurisdizione in favore del G.O.

3. Ha proposto appello il Procuratore regionale con atto in data 20 aprile 2021. Ad avviso dell’appellante il carattere assistenziale del contributo risulta, per espressa previsione di legge, solo strumentale rispetto alla preminente finalità di consentire al beneficiario di affrontare un percorso di inserimento nel mondo del lavoro. Ciò emergerebbe sia dal dato letterale dell’articolo 1 del D.L. n. 4/2019, sia da importanti elementi di natura sistematica, ravvisabili nel complesso sistema di obblighi e vincoli giuridici previsto dalla normativa in esame, tale da configurare un vero e proprio rapporto sinallagmatico tra il privato destinatario della misura e l’amministrazione concedente, rafforzato dal quadro delle sanzioni e dei controlli contemplato dalla norma. In sostanza, l’appellante afferma che, nel rapporto di mezzo a fine, il beneficio economico si pone quale sostegno (mezzo) fintanto che il soggetto destinatario non si inserisca attivamente nel mondo del lavoro (fine), accettando una delle offerte che l’amministrazione propone. I due elementi, quello letterale e quello sistematico, consentirebbero di escludere la riconducibilità di tale forma di intervento ad una prestazione di natura solamente assistenziale, come invece era stato il c.d. “reddito di inclusione”, e darebbe significato agli obblighi e divieti che ne condizionano la percezione, i quali, altrimenti, non troverebbero alcuna giustificazione. Inoltre, il reddito di cittadinanza non potrebbe assimilarsi ai contributi stanziati in favore di soggetti colpiti da eventi calamitosi, che invece costituiscono misura di carattere eccezionale connotata da una finalità risarcitoria e riparatoria che al reddito di cittadinanza è del tutto estranea. Il rapporto di servizio, dunque, dovrebbe ravvisarsi secondo l’appellante sol considerando che si è al cospetto di una erogazione finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo di pubblico interesse di favorire l’occupazione delle classi più disagiate e il loro inserimento sociale, al pari di quanto è dato ravvisare nelle ipotesi di contributi pubblici concessi a soggetti privati per il raggiungimento di un programma di pubblico interesse come l’incremento occupazionale e l’autoimprenditorialità, o l’implementazione del settore della ricerca, o il sostegno del comparto agricolo. In tali casi, peraltro, la giurisdizione contabile è stata affermata pur nella assenza di funzioni e poteri autoritativi trasferiti al privato percettore o di qualsiasi obbligo di rendicontazione. Il Procuratore appellante ha, quindi, concluso per la riforma della sentenza impugnata e l’affermazione della giurisdizione contabile, con rinvio al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 199, comma 1, lett. a) del codice di giustizia contabile.

4. Alla pubblica udienza del 9 giugno 2022 il Pubblico Ministero ha sottolineato che la normativa che disciplina il reddito di cittadinanza evidenzia il carattere solo strumentale dell’aspetto assistenziale ed ha chiesto l’accoglimento dell’appello del Procuratore regionale.

Considerato in DIRITTO 1. Viene all’esame del Collegio il motivo di gravame formulato dal Procuratore regionale avverso la sentenza con cui la Sezione campana ha negato la giurisdizione della Corte dei conti a conoscere della domanda risarcitoria del requirente; diniego basato sull’assunto secondo cui la disciplina del reddito di cittadinanza, così come enucleata dal D.L. n. 4/2019, convertito nella Legge n. 26/2019, pur imponendo ai nuclei familiari il possesso di determinati requisiti e l’assunzione di puntuali obblighi finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale, invero “non conferisce al privato beneficiario la gestione di risorse pubbliche secondo finalità pubbliche, essendo costui un semplice destinatario di risorse di mera provenienza pubblica, prive di vincolo di destinazione”. Nel caso di specie non sussisterebbe alcun vincolo di finalizzazione con riguardo all’impiego del reddito di cittadinanza e il privato beneficiario non sarebbe chiamato a partecipare a un programma pubblicistico, non essendo investito del compito di porre in essere un’attività in vece della pubblica amministrazione. In definitiva, secondo il Collegio di primo grado, se pure alla base dell’intervento legislativo sussista un generale interesse pubblico all’inserimento nel mondo del lavoro, quest’ultimo si manifesta in termini strumentali alla realizzazione della primaria finalità assistenziale di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Per contro il Requirente, nel richiamare la disciplina del più volte citato decreto-legge, ha riconosciuto valore soltanto strumentale al fine assistenziale ed ha sostenuto la prevalenza del fine di pubblico interesse che connota il contributo, indirizzato al progressivo inserimento dei destinatari nel mondo del lavoro. 7 2. Ciò posto, va dunque in primo luogo individuata la natura di tale misura, a partire dalla sua configurazione a livello normativo. Il reddito di cittadinanza costituisce un particolare beneficio economico, introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. n. 4 del 2019, al dichiarato fine di operare una generale razionalizzazione dei servizi per l’impiego, con l’obiettivo di una più efficace gestione delle politiche attive per il lavoro. L’art. 1, comma 1, pertanto, definisce il reddito di cittadinanza quale “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro”, oltre che di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura, prevedendo a tal fine politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro. Ai sensi dell’art. 4, per beneficiare del reddito di cittadinanza è necessario rispettare numerose condizionalità, quali l’immediata disponibilità al lavoro (con l’obbligo di accettare una delle offerte di lavoro congrue proposte dall’Amministrazione) e l’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, attraverso la sottoscrizione di un patto per il lavoro e, ove siano presenti particolari criticità, di un patto per l’inclusione sociale. Al rispetto di tali condizioni sono tenuti i componenti del nucleo familiare maggiorenni, non occupati e non frequentanti un regolare corso di studi, salvi taluni casi specifici di esonero. Il venir meno agli obblighi comporta dirette conseguenze sulla percezione del beneficio, le quali, a seconda della gravità dell’inadempimento, vanno da una decurtazione delle somme da erogarsi sino alla decadenza o alla revoca dallo stesso beneficio, con obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito. Occorre, beninteso, ai fini del presente giudizio, analizzare quella che è stata la ratio dell’istituto. È innegabile che il reddito di cittadinanza assume, alla stregua del D.L. n. 4 del 2019, la finalità di favorire la reimmissione nel mercato del lavoro di persone idonee, contrastando, in tal modo, il bisogno e il disagio sociale per i nuclei familiari più fragili e marginalizzati, privi di prospettive di occupabilità nel breve periodo. Appare, perciò, prevalere – come meglio si dirà in seguito – la dimensione dell’istituto di politica attiva dell’occupazione e la sua natura propulsiva rispetto al mondo del lavoro.

III. Ciò premesso, vanno esaminate le principali obiezioni mosse dalla Sezione territoriale campana alla sussistenza del rapporto di servizio fra il beneficiario e l’Amministrazione erogatrice, che l’hanno indotta a negare la giurisdizione a conoscere della materia. 8 III.1) Una principale obiezione ha riguardato la circostanza che, nella specie, il privato beneficiario non sarebbe chiamato a partecipare a un programma pubblicistico, non essendo investito del compito di porre in essere un’attività in vece della pubblica amministrazione. In secondo luogo, il primo giudice ha rilevato l’assenza di vincoli di rendicontazione delle risorse ricevute. Tale assunto non può essere condiviso. La pacifica giurisprudenza di legittimità ha da tempo avvalorato il principio secondo cui la sussistenza del rapporto di servizio è da intendere in senso lato. Perciò, la giurisdizione contabile può prescindere dal trasferimento di funzioni e poteri autoritativi al privato percettore e da qualsiasi obbligo di rendicontazione finale delle somme di denaro ricevute. Si intende fare riferimento, in particolare, ai casi di erogazione di contributi pubblici finalizzati alla realizzazione di un programma di pubblico interesse al quale partecipa il beneficiario, quali ad esempio i contributi miranti a favorire l’imprenditorialità, o erogati a sostegno del comparto agricolo o, ancora, destinati all’incremento occupazionale. Volendo accennare solo alle più recenti pronunce delle Sezioni Unite, basti ricordare la sentenza n. 13245 del 2019, secondo cui è configurabile un rapporto di servizio tra la pubblica amministrazione erogatrice di contributi per l’agevolazione delle attività produttive ed il soggetto privato beneficiario che, disponendo della somma erogata in modo diverso da quello preventivato o ponendo in essere i presupposti per la sua illegittima percezione, abbia frustrato lo scopo perseguito dall’Amministrazione, distogliendo le risorse conseguite dalle finalità cui erano preordinate. Il percettore del finanziamento risponde, secondo la Suprema Corte, per danno erariale innanzi alla Corte dei conti in quanto, ai fini del radicamento della giurisdizione contabile a conoscere del danno erariale conseguente alla illecita percezione di un contributo pubblico, risulta decisiva la mancata realizzazione degli scopi perseguiti con la contribuzione, non avendo rilevanza né la qualità del soggetto che gestisce il denaro pubblico, il quale ben può essere un soggetto di diritto privato destinatario della contribuzione, né il titolo in base al quale la gestione del pubblico denaro è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio ma anche in una concessione amministrativa o in un contratto di diritto privato. La sentenza sopra richiamata è solo confermativa di una costante giurisprudenza di legittimità, affermatasi già con la pronuncia n. 4511 del 2007 e poi ribadita da molte altre (fra le tante, Cass. S.U. n. 20434/09 e n. 1774/13, ove espressamente si afferma che «tra la pubblica amministrazione che eroga un contributo e il privato che lo riceve si instaura un rapporto di servizio», n. 3310/14, n. 23897/15, n. 1515/16, n. 18991/17, n. 21297/17, n. 14436/18).

9 Proseguendo nella disamina della giurisprudenza, si osserva che, in ambito di contributi pubblici per l’editoria, le Sezioni unite, ravvisata la sussistenza dell’interesse pubblico sotteso all’erogazione, hanno ribadito che “il percettore del finanziamento risponde per danno erariale innanzi alla Corte dei conti in caso di erogazioni ricevute sulla base di dichiarazioni non veritiere, giacché la condotta illecita posta in essere per assicurarsi indebitamente il finanziamento finisce con il sottrarlo a più specifica destinazione e corretto impiego, nel perseguimento del fine pubblico sotteso, da parte di altro soggetto privato in possesso dei requisiti prescritti dalla legge” (Cass. S.U. ord. n. 30526/2019)

In tema di indebita percezione di contributi pubblici erogati per il miglioramento del settore agrario, l’ordinanza n. 7009/2020 ha affermato che “ove il privato, cui siano erogati fondi pubblici, per sue scelte incida negativamente sul modo d’essere del programma imposto dalla P.A., alla cui realizzazione esso è chiamato a partecipare con l’atto di concessione del contributo, e l’incidenza sia tale da poter determinare uno sviamento dalle finalità perseguite, esso realizza un danno per l’ente pubblico – anche sotto il mero profilo di sottrarre ad altre imprese il finanziamento che avrebbe potuto portare alla realizzazione del piano così come concretizzato ed approvato dall’ente pubblico con il concorso dello stesso imprenditore – di cui deve rispondere davanti al giudice contabile” (Cass. S.U. ord. n. 7009/2020).

È stato ancora affermato che “Sussiste la responsabilità erariale dei soggetti privati che, avendo percepito fondi pubblici, abbiano disposto della somma in modo diverso da quello programmato...poiché tra la p.a. che eroga un contributo e colui che la riceve si instaura un rapporto di servizio, inserendosi il beneficiario dell’importo nel procedimento di realizzazione degli obiettivi pubblici (Cass. S.U., sent. n. 15490/2020; ord. n. 32418/2021)).

Da ultimo, avuto riguardo alla indebita percezione di contributi finalizzati alla formazione professionale e all’incremento occupazionale, è stato ravvisato il rapporto di servizio tra l’ente privato percettore e la P.A. erogatrice tutte le volte in cui l’affidamento delle pubbliche risorse costituisca “il mezzo per il raggiungimento dei fini che ad essa sono attribuiti dalla legge” (Cass. S.U. n. 211/2001; n. 14473/2002), ritenendo decisivo che il privato abbia inciso negativamente sul programma pubblico alla cui realizzazione era stato chiamato a partecipare con l’erogazione del contributo, con danno per la P.A. anche sotto il mero profilo di sottrarre ad altri soggetti privati il contributo, il beneficio o il finanziamento così come concretizzato ed approvato dall’ente pubblico” (Cass. S.U. ord. n. 20434/2009). III.2)

L’esame delle pronunce appena illustrate dimostra come la giurisprudenza di legittimità, nell’affermare la giurisdizione contabile, abbia sempre valorizzato il rilievo assunto dal rapporto di servizio comunque instauratosi con l’ente pubblico danneggiato e il correlato profilo di “funzionalizzazione” delle risorse pubbliche indebitamente percepite o non correttamente utilizzate.

Venendo, dunque, ad indagare la sussistenza del rapporto di servizio nella materia oggetto del presente giudizio, il Collegio è dell’avviso che il fine pubblico, individuato quale obiettivo primario della norma istitutiva del reddito di cittadinanza, è appunto costituito dall’incremento occupazionale dei soggetti in condizioni di disagio socio economico e dalla finalità consistente nel favorirne l’inserimento nel mondo del lavoro; rispetto a tale precipua finalità pubblica il beneficio economico che si accompagna alla misura si sostanzia in una integrazione al reddito del soggetto percipiente e del relativo nucleo familiare per il tempo necessario affinché lo stesso si attivi nella ricerca di una occupazione, aderendo ai corsi di formazione ed accettando una delle offerte di lavoro che l’amministrazione propone al soggetto percettore del contributo. Si delinea, cioè, il carattere strumentale del fine assistenziale rispetto a quello che è l’obiettivo di inserimento in ambito occupazionale. In ciò sostanziandosi il rapporto sinallagmatico fra il privato percettore e la P.A., che fonda il citato rapporto di servizio. L’obiettivo del legislatore del 2019 è, dunque, quello di mobilitare i beneficiari alla ricerca di una occasione di lavoro in grado di renderli autonomi e, dunque, di sollecitare i fruitori della misura verso la ricerca di un impiego. Tratteggiato il perimetro entro cui la finalità di politica del lavoro deve realizzarsi, il rapporto di servizio si connota, perciò, per la partecipazione attiva dell’interessato richiedente il beneficio alla ricerca di una occupazione e per la sua soggezione ad una variegata tipologia di obblighi e vincoli che si pongono quali precipue condizioni alla stessa percezione del beneficio. Il rapporto di servizio, dunque, appare delineato nella sua triplice valenza: come relazione soggettiva tra il privato e l’amministrazione, come dimensione oggettiva riferita al coacervo degli obblighi di servizio la cui violazione costituisce il primo anello della responsabilità e come momento di collegamento ad un fine pubblico che determina l’assoggettamento alla giurisdizione contabile. III.3) La circostanza che la principale natura dell’istituto sia quella propulsiva rispetto al mondo del lavoro è rimarcata, appunto, dalle numerose condizionalità che lo accompagnano. A tal fine, infatti, l’istituto si incentra eminentemente sull’obbligo della dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare che abbiano conseguito la maggiore età, attraverso la sottoscrizione dei c.d. patti per il lavoro (art. 4) nonché sull’adesione obbligatoria a percorsi appositi di formazione e inserimento. A tali obblighi che caratterizzano la fase genetica cui è subordinato l’accoglimento dell’istanza, se ne associano altri che assistono l’intero arco temporale in cui la misura viene concessa, e che impongono al beneficiario di 11 comunicare tutte le variazioni reddituali, patrimoniali o di consistenza del nucleo familiare che siano in grado di incidere, escludendolo o riducendolo, sul diritto alla misura. Ad essi fanno da corollario, poi, i controlli dell’Amministrazione erogante finalizzati alla verifica del rispetto degli impegni cui è condizionata l’erogazione, con le conseguenti sanzioni previste dalla legge (art. 7).

Condividendo quanto espresso dal Procuratore appellante, si deve quindi rilevare che le numerose condizionalità che contraddistinguono la misura, tutte finalizzate all’inserimento lavorativo del percettore, unitamente al dato letterale del testo normativo, escludono la riconducibilità di tale forma di intervento ad una prestazione di natura prevalentemente assistenziale. Non può convenirsi, poi, con quanto pure rilevato dal primo giudice, il quale, allo scopo di avvalorare la tesi della natura eminentemente assistenziale del reddito di cittadinanza, l’ha associato all’ulteriore strumento, pure previsto dalla legge n. 26 del 2019, della c.d. pensione di cittadinanza la quale, invece, nasce e viene disciplinata con l’esclusiva finalità pubblica di misura di contrasto alla povertà dei soggetti di età pari o superiore ai 67 anni di età e, pertanto, non più idonei all’inserimento nel mondo lavorativo. La diversa natura di mero sostegno al reddito dei percettori di pensione di cittadinanza giustifica, infatti, che per essa non operino tutte le disposizioni che disciplinano il patto per il lavoro e per l’inclusione sociale, o gli obblighi e i divieti collegati direttamente all’intento occupazionale. La natura di misura attiva per il lavoro del reddito di cittadinanza è dimostrata, altresì, dalla previsione normativa (art. 8) di considerevoli sgravi fiscali in favore delle aziende private che assumono i beneficiari del reddito di cittadinanza. Una ulteriore conferma della natura di misura concentrata sugli interventi di inclusione occupazionale si ricava dal comma 3 dell’art. 2 della disciplina, laddove è previsto che non hanno diritto al reddito di cittadinanza i nuclei familiari che annoverano soggetti disoccupati a seguito di dimissioni volontarie non per giusta causa: in tali ipotesi è precluso l’accesso al beneficio nei dodici mesi successivi alla data delle dimissioni. 3. A sostegno della tesi che nega la giurisdizione contabile, la Sezione campana ha richiamato la sentenza 5 maggio 2011, n. 9846, con la quale le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno escluso la giurisdizione della Corte dei conti con riguardo all’erogazione di contributi pubblici in favore di soggetti privati danneggiati da eventi calamitosi. Ebbene, il paragone non coglie nel segno. Al riguardo la stessa Corte Suprema, con la successiva sentenza n. 13245 del 2019, ha sottolineato quanto alla pronuncia n. 9846/2011, che “Tale sentenza, infatti, si fa carico di sottolineare che nella fattispecie ivi saminata mancava, appunto, proprio il “programma” della pubblica amministrazione destinato ad essere gestito dal privato beneficiario. È proprio il distinguo 12 operato nella sentenza n. 9846/11 che impone, allora, di ritenere sussistente un rapporto di servizio allorquando l’erogazione del contributo sia funzionale alla realizzazione di un programma finalizzato al perseguimento di un pubblico interesse, come nel caso della erogazione di risorse pubbliche sulla base di atti normativi, nazionali o dell’Unione Europea, diretti alla realizzazione di politiche economiche pubbliche in determinati settori ritenuti meritevoli di sostegno (agricoltura, industria, ricerca, etc.)”. In definitiva, con tale ultima sentenza la Corte di cassazione ha operato una netta distinzione fra i sussidi destinati ad esclusivo scopo di solidarietà, in relazione ai quali la giurisdizione spetta al giudice ordinario, e quelli diretti, invece, ad attuare programmi predisposti dalla pubblica amministrazione. In quest’ultimo caso, il costante orientamento della Cassazione ritiene che spetti alla Corte dei conti conoscere degli eventuali danni causati dall’indebita percezione o dalla cattiva gestione delle risorse pubbliche, in quanto fra l’amministrazione erogante e i soggetti privati destinatari dei contributi si instaura un rapporto di servizio che, invece, manca nel caso di erogazioni a scopo meramente solidale. Ebbene, venendo alla fattispecie in esame, rileva il Collegio che, in presenza dell’erogazione di un contributo pubblico, collegato ad un programma finalizzato alla cura di un interesse pubblico al cui utilizzo è compartecipe il privato beneficiario, contributo strumentale, quindi, a realizzare il fine pubblico di inclusione occupazionale dei meno abbienti, la giurisdizione contabile si radica quando il destinatario del denaro pubblico (che non può, si ripete, essere considerato “mero destinatario del beneficio economico” come ritenuto dai primi giudici) utilizza la risorsa in modo diverso da quello preventivato o ponendo in essere i presupposti per la sua illegittima percezione, o anche semplicemente sottraendo, con la propria condotta, ad altri possibili beneficiari il contributo che avrebbe potuto portare alla realizzazione della finalità prefigurata dal legislatore.

4. Il Collegio non ignora che le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 18480 del 9 agosto 2010, hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere delle controversie sulla esistenza del diritto e sulla spettanza del reddito di cittadinanza introdotto, in via sperimentale, dalla legge della Regione Campania n. 2 del 19 febbraio 2004 (poi abrogata dall’art. 19, comma 2, della legge regionale n. 16 del 2010) in applicazione della legge quadro n. 328 del 2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. In quella circostanza le Sezioni unite hanno definito il reddito di cittadinanza introdotto dalla legge regionale n. 2/2004 come una prestazione di natura assistenziale. 13 Tuttavia, tale pronuncia si è basata sull’attenta ricognizione di quella normativa regionale e delle finalità ivi chiaramente esplicitate dal legislatore regionale, di rimozione e superamento di situazioni di svantaggio e di bisogno. Analizzando il testo della norma si evince che l’articolo 2 L. R. n. 2/2004 delinea l’oggetto e la finalità del reddito di cittadinanza, concesso ai residenti comunitari ed extracomunitari da almeno sessanta mesi nella Regione Campania in possesso di un reddito annuo inferiore ad euro 5.000,00 “come misura di contrasto alla povertà e all’esclusione e come strumento teso a favorire condizioni efficaci di inserimento lavorativo e sociale” e come “prestazione concernente un diritto sociale fondamentale”. La misura si sostanziava in una erogazione monetaria per la durata massima di dodici mesi, non superiore ai 350,00 euro mensili per nucleo familiare e in specifici interventi mirati all’inserimento scolastico, formativo e lavorativo dei singoli componenti, consistenti (art. 6) in sussidi per l’acquisto di libri scolastici, agevolazioni per l’uso dei trasporti pubblici regionali, sostegno alle spese di affitto, inserimento nelle attività culturali, accesso gratuito ai servizi sociali e socio-sanitari, nonché in misure tese a promuovere l’accesso ai dispositivi della politica del lavoro regionale indirizzati alla formazione e di incentivo all’occupazione. Senonché, tra le finalità della norma regionale risulta predominante lo scopo di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, mentre (anche esaminandone il regolamento di attuazione del giugno 2004) non si evincono in essa quegli stringenti meccanismi di condizionalità che invece caratterizzano il reddito di cittadinanza disciplinato dalla legge statale n. 26 del 2019, i quali evidenziano la chiara finalizzazione del legislatore statale agli obiettivi di politica attiva del lavoro, cui sono indissolubilmente legati i requisiti, oggettivi e soggettivi, ivi previsti, la sottoscrizione del patto per il lavoro ed il connesso impegno ad accettare l’offerta di occupazione proposta dall’Amministrazione, i doveri di comunicazione e le corrispondenti sanzioni, che giungono alla revoca del beneficio con obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito in caso di dichiarazioni mendaci o di omessa comunicazione delle variazioni di reddito del proprio nucleo familiare. Dalla pronuncia delle Sezioni Unite si evince la diversa natura del reddito di cittadinanza rispetto al beneficio regionale in questione, peraltro attribuito – nei limiti delle risorse disponibili – ai soggetti “che ne fanno richiesta”, non presupponendo dunque alcun potere discrezionale della pubblica amministrazione se non quello della verifica delle condizioni reddituali: anche sotto tale profilo si delinea una chiara differenza con la norma statale n. 26/2019 istitutiva del reddito di cittadinanza, la quale prevede invece una selezione a monte dei possibili beneficiari, escludendo i nuclei familiari 14 che annoverano tra i componenti soggetti disoccupati a seguito di dimissioni volontarie non per giusta causa, o sottoposti a una misura cautelare personale, o che abbiano subito condanne definitive per taluni specifici reati nei dieci anni antecedenti la richiesta. In conclusione, la diversa misura disciplinata dalla legge regionale Campania n. 2/2004 si caratterizzava nell’intento del legislatore come un sussidio per il sostentamento a favore dei non abbienti, in cui la precipua finalità di assistenza e contrasto alla povertà per la promozione del benessere fisico e psichico della persona, a prescindere dalla sua occupazione lavorativa, era delineata già nell’articolo 2 della norma e giustificava quindi la devoluzione della materia al giudice ordinario, come del resto ben ha messo in evidenza la Corte di cassazione con la menzionata sentenza n. 18480/2010. Le considerazioni sopra esposte inducono il Collegio a ritenere che siffatta sentenza, peraltro richiamata dalla Sezione Campania in altre pronunce pure riferite al reddito di cittadinanza (es. sentenza n. 337/2021) non sia confacente, quanto alla provvista di giurisdizione, alla diversa disciplina enucleata dal legislatore statale con la legge n. 26 del 2019. Tornando invece all’istituto oggetto del presente giudizio, il Collegio non può fare a meno di rammentare che la Corte costituzionale si è recentemente occupata di tale misura con due importanti pronunce, la n. 126/2021, pubblicata in G.U. il 23 giugno 2021 e la n. 19/2022, pubblicata il 26 gennaio 2022. Con la sentenza n. 126/2021, la Consulta si è pronunciata (dichiarandola non fondata) sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 7-ter, comma 1, del D.L. n. 4/2019, conv. in L. n. 26/2019, che impone di sospendere l’erogazione del reddito di cittadinanza nei confronti del beneficiario o del richiedente a cui è applicata una misura cautelare personale. In tale contesto il Giudice delle leggi ha affrontato il tema della natura da attribuire alla misura, che secondo la prospettazione del giudice rimettente era da ritenersi volta a porre delle “misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale”, evidenziando pertanto una ratio assistenziale e di inclusione. Nel respingere tale prospettazione la Corte costituzionale ha preso le mosse dall’esame letterale del d.l. n. 4 del 2019, rilevando (al par. 6.1) come la norma abbia introdotto per la prima volta tale beneficio economico “al dichiarato fine di operare un riordino del sistema di assistenza sociale e una generale razionalizzazione dei servizi per l’impiego, con l’obiettivo di una più efficace gestione delle politiche attive per il lavoro” , precisando altresì che “L’art. 1, comma 1, così, definisce il reddito di cittadinanza quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro, oltre che di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale”. 15 La sentenza pone quindi al vaglio (par. 6.1.1.) i requisiti personali, reddituali e patrimoniali per accedere al reddito, posando l’accento sulle numerose condizionalità imposte dall’art. 4 per beneficiare del reddito di cittadinanza, quali l’immediata disponibilità al lavoro (con l’obbligo di accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue [ridotte a due con la legge di bilancio del 2022: r.d.r.] e l’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, attraverso la sottoscrizione di un patto per il lavoro e, ove siano presenti particolari criticità, di un patto per l’inclusione sociale. Infine, la Consulta richiama le molteplici sanzioni previste all’articolo 7 al venir meno degli obblighi imposti al richiedente e al nucleo familiare, che, a seconda della gravità dell’inadempimento, vanno da una decurtazione delle somme da erogarsi sino alla decadenza o revoca dallo stesso beneficio, in alcuni casi con obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito. Viene quindi affrontato (par. 6.2) il merito delle questioni sollevate e, in primo luogo, quella relativa alla violazione degli artt. 2 e 3 Cost. In tali fondamentali passaggi argomentativi la sentenza si dissocia in maniera decisa dalla prospettazione del r.d.c. come misura connotata dalla principale finalità assistenziale e di inclusione: la Consulta “rileva che la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica. Ciò differenzia la misura in questione da altre provvidenze sociali, la cui erogazione si fonda essenzialmente sul solo stato di bisogno, senza prevedere un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità. Così, ad esempio, per quelle prestazioni che si configurano quali misure di sostegno indispensabili per una vita dignitosa, come la pensione di inabilità civile – di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 – diretta alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili e alla tutela di bisogni primari della persona, al fine di garantire un minimo vitale di sussistenza a presidio del nucleo essenziale e indefettibile del diritto al mantenimento, garantito a ogni cittadino inabile al lavoro”. La sentenza prende posizione anche sull’istituto della c.d. pensione di cittadinanza, disciplinato dal medesimo d.l. 4 del 2019, evidenziandone la diversa finalità assistenziale rispetto al reddito di cittadinanza: “Si pensi anche alla pensione di cittadinanza – prevista dallo stesso d.l. n. 4 del 2019, come convertito, per i nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni – che è una misura di mero contrasto alla povertà delle persone anziane; o ancora all’assegno sociale – riconosciuto dall’art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 a coloro che abbiano compiuto 65 (ora 67) anni di età e siano titolari di un reddito al di sotto della soglia di legge – volto a far fronte a un particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza. Il reddito di cittadinanza, invece, non ha natura meramente assistenziale, proprio perché 16 accompagnato da un percorso formativo e d’inclusione che comporta precisi obblighi, il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo”. La sentenza evidenzia altresì che “proprio in quanto provvidenza non meramente assistenziale, essa è compatibile con ulteriori seppur limitati redditi, derivanti da lavoro o da altri strumenti assistenziali, la cui presenza determina semmai una decurtazione dell’importo da erogarsi”. Nell’affrontare, confutandole (par. 6.3), le censure relative alla asserita violazione (da parte dell’art. 7-ter, comma 1, che prevede la sospensione del beneficio) del diritto al lavoro sancito dagli artt. 1 e 4 Cost., la sentenza conclude evidenziando ancora una volta il programma pubblico di politica attiva del lavoro che caratterizza la norma del 2019: “Il reddito di cittadinanza è finalizzato alla realizzazione di tale diritto. Non contrasta certo con esso che il legislatore lo riservi a un soggetto di cui non sono in dubbio le qualità morali, che non è in condizione di attuale pericolosità ed è in grado di seguire un percorso d’inserimento nel mercato del lavoro, non essendo destinatario di misure le quali...possano risultare a tal fine impeditive.” VI.1) Le medesime considerazioni sono state successivamente ribadite (paragrafi 3 e segg.) con la sentenza n. 19/2022, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lett. a), n. 1) del d.l. n. 4/2019, nella parte in cui richiede, fra i diversi requisiti per l’ottenimento del reddito di cittadinanza, ai cittadini stranieri il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. La sentenza n. 19/2022 arriva anche ad operare una netta distinzione del reddito di cittadinanza con il precedente istituto del c.d. “reddito di inclusione” (REI), introdotto dal decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, emanato in attuazione della legge-delega 15 marzo 2017 con decorrenza dal 1° gennaio 2018, evidenziando che “Rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un’accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari”. Dopo avere ribadito i principi già affermati con la sentenza n. 126/2021, il Giudice delle Leggi ha conclusivamente affermato: “Nel caso in esame questa Corte non può che ribadire che il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le 17 esclusioni [ivi previste]). È inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni (art. 7, co. 5, d.l. n. 4 del 2019)”. Da ultimo, dopo avere ricordato che “resta compito della Repubblica”, in attuazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 38 primo comma Cost., garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla “sopravvivenza dignitosa” e al “minimo vitale”, ha tuttavia concluso rilevando che “Nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito può, tuttavia, legittimare questa Corte a intervenire “convertendo” verso esclusivi obiettivi di garanzia del minimo vitale una più complessa misura, come quella oggetto del presente giudizio, cui il legislatore ha assegnato, come visto, finalità prevalentemente diverse”. VII. Orbene, le considerazioni inizialmente sviluppate dal Collegio avuto riguardo all’aspetto sia letterale che sistematico della norma in esame, unitamente ai condivisi principi esposti nelle richiamate sentenze della Suprema Corte ed in quelle della Consulta che valorizzano fortemente la finalità di politica attiva del lavoro, inducono questo Giudice di appello a ritenere fondate le argomentazioni del Procuratore appellante, che ravvisa il rapporto di servizio in presenza di un progetto finalizzato alla cura della finalità pubblica di inserimento progressivo nel mondo lavorativo del beneficiario della erogazione economica, il quale dunque assume il ruolo di compartecipe alla realizzazione del programma e all’attività dell’amministrazione a fini pubblici, attraverso la sottoscrizione del patto per il lavoro (o il patto per l’inclusione sociale) e mediante l’assunzione dei numerosi obblighi – rafforzati da una fitta rete di sanzioni e controlli – la cui osservanza condiziona la percezione medesima del beneficio. In tale quadro, il contributo economico assume la veste strumentale di sostegno al reddito del percettore fintanto che il soggetto destinatario della misura non si formi e non accetti una delle offerte di lavoro, così partecipando alla realizzazione del programma di pubblica utilità di cui il privato è chiamato a rispondere. La legge in esame, come delineata secondo le intenzioni del legislatore del 2019, costituisce dunque la base normativa che legittima i contributi finalizzati al perseguimento dell’obiettivo di incremento occupazionale, che, così, concretizzano il “contributo di scopo”: la natura del danno erariale è conseguente alla mancata realizzazione degli scopi perseguiti con la contribuzione. E’, quindi, di tutta evidenza che il petitum sostanziale è fondato sulla cattiva utilizzazione dei fondi pubblici e sullo sviamento dalle finalità del contributo (anche solo attraverso la sottrazione del medesimo – tenuto conto della limitatezza delle risorse – ad altri soggetti in grado di realizzarle), con conseguente riconoscimento della giurisdizione della Corte dei conti a conoscere del connesso danno erariale (Cass. S.U. n. 25138 del 2014). 18 VIII. Infine, reputa il Collegio, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, che si sia in presenza non dell’esercizio di una azione di restituzione di indebito, di competenza del G.O., ma di una azione di responsabilità per danno erariale insito nella mancata realizzazione di un fine pubblico perseguito con la contribuzione, mediante il godimento del beneficio di legge ottenuto o mantenuto grazie a dichiarazioni mendaci o con omissione di obblighi di comunicazione (Cass. S.U. n. 24899/2020). Va da sé che l’azione di responsabilità per danno erariale e la facoltà, spettante all’amministrazione danneggiata, di promuovere le ordinarie azioni civilistiche davanti al giudice ordinario per il recupero totale del contributo restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, quanto meno fino alla concorrenza dell’integrale ristoro del pregiudizio subito (Cass. S.U. 13245/2019). Per le su esposte ragioni l’appello del Procuratore regionale va accolto, dichiarando la giurisdizione della Corte dei conti a conoscere della questione e, conseguentemente, disponendo il rinvio al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 199, comma 1, lett. a) del codice della giustizia contabile, per la prosecuzione in diversa composizione del giudizio sul merito e la pronuncia anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. la Corte dei conti, Sezione seconda giurisdizionale centrale d’appello, definitivamente pronunciando, in riforma dell’impugnata sentenza, accoglie l’appello, dichiara la giurisdizione della Corte dei conti e dispone il rinvio al giudice di primo grado, in diversa composizione, per la prosecuzione del giudizio sul merito e la pronuncia anche sulle spese del giudizio di appello. omissis 19

 

 

 

 

 

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